Racconto di Gianluca Berno
<p class="has-drop-cap has-normal-font-size" style="line-height:1.3" value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="70" height="80">Alla fioca luce della candela, che rischiarava appena un paio di metri di corridoio davanti e dietro di lei, ogni cosa era un illusorio tremar di riflessi e d’ombre. A ogni passo, guizzi della fiammella facevano scintillare le dorate cornici de’ quadri scuri, ritratti d’arcigni signorotti e dame antipatiche; danze di luce s’intrecciavano sulle due sfumature di rosso della tappezzeria di stoffa, decorata a festoni di foglie e arabeschi; brillii improvvisi e fugaci rivelavano i contorni di vasi finemente dipinti, statuette di ceramica o bronzo e una pendola, che proteggeva dalla polvere lo stesso quadrato di <em>parquet</em> da forse duecento anni.Alla fioca luce della candela, che rischiarava appena un paio di metri di corridoio davanti e dietro di lei, ogni cosa era un illusorio tremar di riflessi e d’ombre. A ogni passo, guizzi della fiammella facevano scintillare le dorate cornici de’ quadri scuri, ritratti d’arcigni signorotti e dame antipatiche; danze di luce s’intrecciavano sulle due sfumature di rosso della tappezzeria di stoffa, decorata a festoni di foglie e arabeschi; brillii improvvisi e fugaci rivelavano i contorni di vasi finemente dipinti, statuette di ceramica o bronzo e una pendola, che proteggeva dalla polvere lo stesso quadrato di
parquet da forse duecento anni.
Sibilla camminava incerta, guardandosi intorno come se temesse ogni cosa, al centro d’un tappeto lunghissimo e stretto, quasi la sede stradale di quel monumentale corridoio. Sopra la sua testa, i Centauri trattenevano ancora le Nuvole atterrite per soddisfare un turpe desiderio? L’affresco della volta era così avviluppato nell’oscurità, lassù, a cinque metri d’altezza, da farle dubitare che ancora sussistesse.
In momenti del genere, è incredibile come mandar giù un po’ di saliva sembri un’operazione tanto rumorosa; tuttavia, la secchezza che poi Sibilla avvertì in bocca la rassicurò: non avrebbe più rischiato di svegliar qualcuno deglutendo. I suoi occhi vagavano ancora fra le pareti, concedendosi frequenti sbirciate all’indietro: era come se ogni oggetto le fosse ostile, come se da un momento all’altro la matrona in nero del grande ritratto che aveva superato poco prima dovesse uscir della tela e portarla via con sé; o come se l’alta vetrinetta piena di giade otto passi avanti premeditasse di caderle addosso al momento opportuno. Nonostante ogni fibra del suo corpo fosse tesa, nonostante il cervello le dicesse di correre, Sibilla continuava a camminare con circospezione, lentamente, come se un’invisibile forza le impedisse di accelerare. Forse in un remoto angolo della sua mente si annidava ancora la paura di far spegnere la candela.
Non si vedeva il paesaggio all’esterno: pesanti broccati rosso scuro rapivano agli occhi ogni finestra, ma le fitte tenebre oltre il globo di luce in cui Sibilla camminava erano tipiche della notte. A Sibilla pareva quasi di poter immaginare una luna piccola e ingiallita, insufficiente a dare luce e assediata da milioni di stelle minuscole, forellini nella volta di pece. Sotto, le cime degli abeti e, lontane, le vette aguzze del Giura innevato. Perché, poi, il Giura? Non aveva realmente idea di dove fosse quel castello in cui passeggiava nel cuore della notte: magari là fuori c’era una placida mandria di dolci colline tutte vitigni, su cui serpeggiava un sentiero bianco corredato da un filare di cipressi toscani… Ma certo, il Giura per via del Giurassico, si disse: questo posto è vecchio di secoli e lo associo alla preistoria. Ma, chissà come mai, non le veniva nemmeno l’impulso di scostare una di quelle tende ermetiche: no, non sapeva far altro che avanzare, ansiosa di aprire quella porta come se dietro vi fosse la risposta a ogni domanda; e al contempo timorosa di farlo, come se dietro dovesse spalancarsi chissà quale orrenda visione infernale.
In fondo al corridoio, aguzzando la vista, cominciava a discernere i pannelli della gran porta di legno: un legno scuro, naturalmente, intonato al rosso della tappezzeria e delle tende; lo stesso con cui i muri erano rivestiti fino ai davanzali, in un susseguirsi di sobri decori. Sprofondata nel secolo XIX, questo era Sibilla al momento, e si chiedeva perché senza risultati.
La porta si avvicinava lenta ma inesorabile… che sciocca: era lei ad avvicinarsi, come se non potesse farne a meno; e la porta era ormai a un passo: era sicura che aprendola avrebbe scoperto dove si trovava, che sarebbe stata libera, libera, fuori da quel corridoio lugubre, all’aria aperta, libera come quell’aria che immaginava, una brezza: anche gelata sarebbe stata una benedizione.
Eccola con la mano sulla maniglia, pronta a uscire: uno scatto, la porta non è chiusa a chiave, la lascia uscire, la lascia libera, libera…
«Sibilla, che cosa combini?» esclamò una vocina acuta. «Dovrò trovare un altro posto per la tua casa: tutte le volte cadi fuori… E se poi ti fai male?»
La bambina sorridente rimise Sibilla nella casa delle bambole, facendo attenzione a non inclinarla mentre la tirava giù dalla mensola.
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