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L'Irriverente

"Non prendete la vita troppo sul serio, comunque vada non ne uscirete vivi" [Robert Oppenheimer]

Buon Natale/2023

Biglietto d’auguri di Gianluca Berno

Con i migliori auguri per queste feste e l’anno venturo.

Futility. The Wreck of the Titan

Editoriale di Gianluca Berno, 23 giugno 2023

Premetto subito che il titolo qui sopra, traducibile in «Vanità. Il naufragio del Titan», non è di mia invenzione: è il titolo di un romanzo breve, pubblicato dallo scrittore americano Morgan Robertson nel 1896; non credo sia inutile ripercorrerne la trama a grandi linee.

In una fredda notte d’Aprile, in mezzo all’Oceano Atlantico, il più grande transatlantico mai costruito, il britannico Titan, urta un iceberg a grande velocità; solo tredici delle tremilacinquecento persone a bordo riescono a salvarsi sulle pochissime scialuppe.

Credo che qualcuno dei lettori abbia notato vaghissimi punti di contatto con una storia vera, quella del Titanic, accaduta però quattordici anni più tardi; sia aggiunto per dovere di cronaca che il libro di Robertson ebbe scarsissime vendite al momento della pubblicazione, poiché nessuno credette che una cosa del genere potesse accadere in pieno positivismo scientifico. Non ci credette nemmeno il capitano del Titanic:

Non riesco a immaginare un incidente tale da causare l’affondamento di una nave: le tecniche di costruzione navale, oggigiorno, sono andate oltre questa possibilità.

Capitano E.J. Smith, 1906

E ora, veniamo al presente: una società privata, la Ocean Gate, ha armato un piccolo sommergibile di profondità o batiscafo al solo scopo di portare danarosi turisti, cinque alla volta, a osservare da vicino il relitto del Titanic; il batiscafo è stato battezzato Titan, con un cattivo gusto francamente inarrivabile; il Titan era mosso da un comando a distanza e dotato di un solo oblò, chiuso dall’esterno per ragioni di sicurezza, dal vetro spesso almeno diciotto centimetri – così suppongo, dato che tali erano le misure degli oblò del Mir 1 e del Mir 2, usati anche da James Cameron per le esplorazioni preliminari al suo film. Dico che lo suppongo perché, al punto a cui sono arrivate le cose, posso aspettarmi di tutto, anche che lo scafo fosse tenuto insieme con la colla vinilica…

Sta di fatto che l’altro giorno il nostro amico in carbonio (!), in missione subacquea da diporto, dopo quattro ore di discesa, trovandosi a tremila ottocento e rotti metri di profondità, è scomparso dai radar; aveva una scorta d’aria per settantadue ore, esauritasi ieri a mezzogiorno (ora locale). È di ieri sera la notizia che il Titan sarebbe stato ritrovato; o meglio, ne hanno ritrovato un frammento, a cinquecento metri dal Titanic. Imploso. Un dirigente della Ocean Gate ha affermato che, con ogni probabilità, c’è stato uno di quei piccoli guasti capaci di minare la tenuta del mezzo, che di colpo non avrebbe più retto alla pressione oceanica: dev’essere accaduto, sostiene il tale, nel momento esatto in cui, alla base, il sottomarino è stato perduto di vista.

Dalle profondità oceaniche non è dunque riemerso il Titan, ma stanno emergendo dettagli sempre più inquietanti sull’intera gestione della faccenda: in primo luogo, le dimissioni di due ingegneri ch’erano entrati in urto con la dirigenza dopo aver espresso i propri legittimi dubbi sulla sicurezza e la fattibilità del progetto; poi la curiosa testimonianza di Matt Groening, il padre dei Simpson, che in tempi non sospetti era sceso a vedere il relitto sullo stesso sommergibile e si è detto sollevato una volta riemerso, dato che anche in sua presenza i collegamenti radio con la superficie avevano fatto le bizze; in terzo luogo, la liberatoria firmata dai cinque passeggeri, nella quale li s’informava che il Titan era privo delle omologazioni necessarie e che il rischio di morte era compreso nel prezzo. Personalmente, dover firmare una liberatoria del genere mi avrebbe tenuto ben alla larga dal fondo dell’Atlantico, se già non ci avesse pensato la Provvidenza, facendomi nascere nella classe media; si è infatti osservato che, per farsi seppellire in mare così di malagrazia, i signori avrebbero speso complessivamente il valore di casa mia – e il resto mancia.

Mi si dirà, come un tale di mia conoscenza ha già fatto, che togliersi lo sfizio di vedere il Titanic da vicino è una di quelle attrattive cui chi può non si sottrae: le emozioni forti, l’appuntamento con la Storia, il senso di potere che si prova buttando via decine di migliaia di dollari come ben pochi altri potrebbero fare… Benissimo; sono anch’io appassionato del Titanic, e chi mi legge da tempo lo sa; anch’io sarei ben curioso di vedere il relitto dal vivo; anch’io, potendo, avrei speso una grossa somma per farlo. Ma mi sarei accertato prima di usare un mezzo adeguato: si chiama buonsenso e ha tenuto in vita l’umanità per quarantamila anni.

Ma tutte queste informazioni potrebbero anche essere elementi di disturbo: per com’è stato narrato, l’incidente è fin troppo assurdo. L’amministratore delegato, morto nel disastro, è riuscito a ottenere l’autorizzazione a navigare per un veicolo che non avrebbe dovuto averla, non essendo omologato; un veicolo che, costruito in fibra di carbonio – materiale inadatto a tali scopi, come ha sottolineato anche il citato Cameron – ha potuto guastarsi in modo tale da implodere sotto una pressione alla quale avrebbe dovuto resistere; un veicolo che avrebbe potuto essere evacuato solo se qualcuno avesse svitato da fuori diciassette bulloni. Secondo me, è plausibile che qualcuno, magari dentro l’azienda, odiasse quei cinque signori e abbia colto l’occasione per sabotare il loro viaggio; non dico che così tutto quadri, anzi; ma penso che ogni teoria grandemente accettata avrà sempre un margine d’errore, per quanto solida, e dunque le teorie minoritarie possono sempre rivelarsi plausibili.

Altrimenti, ripensando al fatto che l’ormai vedova del pilota è pronipote dei coniugi Strauss, morti a bordo perché la signora Ida non voleva lasciare il marito Isidor dopo quarant’anni di matrimonio – e naturalmente, Isidor non avrebbe mai lasciato la nave prima degli altri uomini -, mi viene in mente che c’è sempre una morale, forse spicciola ma bene in linea con tutto ciò che è successo e, del resto, assolutamente in tono con la tragedia del Titanic: non provocate i fantasmi.

Doppio omaggio

Cari lettori,

ieri sono morti due personaggi, ciascuno celebre a modo proprio. Ho pensato di ricordarli in un solo articolo, vista la comunanza di data, ognuno nel modo che mi è parso più adeguato.

Uno ha dato pane alla satira per trent’anni, perciò ho ritenuto opportuno salutarlo con un’ultima vignetta…

L’altro è stato attore e cantautore, e mi pare necessario, ancorché probabilmente scontato, ricordarlo con questa canzone.

F. Nuti, Sarà per te – Sanremo ’88

Buona Pasqua 2023

Biglietto di Gianluca Berno

Dall’Iliade/Ettore e Andromaca

Mitica leggera/22, di Gianluca Berno

Dopo millenni, riprende la serie Mitica leggera, di cui troverete qui le puntate precedenti. Questa volta, tocca allo struggente dialogo fra Ettore, rappresentante dei valori guerrieri che sopravanzano qualunque preoccupazione personale, e la moglie Andromaca, che in cima alle mura lo implora di non ridiscendere in battaglia, presentendo che non lo rivedrà vivo e già disperata per la distruzione del proprio universo affettivo. L’eroe cerca di consolarla nella maniera meno romantica e convincente di sempre (qualcosa come: «Tanto moriremo comunque») e parte verso il destino. La canzone scelta per esprimere il dramma è seria di necessità: Via del Campo, di Fabrizio De André.

L’originale…

… e la mia versione.

1. «Via dal campo o non torni indietro:

aver fegato è il tuo disastro

e anche il mio, che ti sono moglie,

e morrei a veder le tue spoglie.

2. I parenti mi uccise Achille;

puoi mandare altri mille e mille,

ma soltanto tu mi rimani:

senza te non avrò domani.»

3. «Cara Andromaca, non c’è scampo:

con me Troia morrà sul campo.

Io non voglio vederti schiava:

chi non lotta questo ricava.»

4. Qui la moglie lo lasciò andare,

una supplica sull’altare:

dalle guerre non nasce niente,

dall’affetto nascono i fior.

Dalle guerre non nasce niente,

dall’affetto nascono i fior.

Ora et labora

di Gianluca Berno

Cari lettori,

si dibatte ferocemente sugli effetti del reddito di cittadinanza, sulle cause della disoccupazione, sui problemi dell’economia italiana e sui provvedimenti più adatti in questo frangente. Quella che si tenterà qui è una disamina la più sistematica possibile di quanto sta accadendo, in cerca di una proposta senza passioni politiche né distrazioni ideologiche: è vero, le probabilità che qualcuno con potere decisionale legga questa proposta sono scarsissime, e non è nemmeno detto che sia la soluzione; ma penso sia sempre utile condividere un’idea con altre persone e sapere che cosa ne pensino, almeno su un piano teorico.

In principio è il problema concreto: il tasso di disoccupazione italiano, soprattutto nelle fasce giovanili, è intollerabilmente alto per un Paese civilizzato e repubblicano; dall’altra parte, centinaia di migliaia di cittadini percepiscono il reddito di cittadinanza e sono continuamente indicati in televisione come un problema da risolvere, dato che non sembrano darsi la pena di cercare un lavoro né di qualificarsi in vista della ricerca. Gli opinionisti di centrodestra tendono a sottolineare l’ingiustizia nei confronti di chi lavora, mentre il centrosinistra vecchia maniera si muove in base ai sondaggi, come ogni opposizione, e i pentastellati difendono la legge a spada tratta in nome dell’abbattimento della povertà (per altro, mai raggiunto).

Per quanto mi riguarda, io penso che esista un solo merito reale del reddito di cittadinanza, l’unico che il Movimento 5 stelle ha da tempo smesso di sottolineare. Qualcuno di voi ha forse letto la strana notizia del lussuoso albergo comasco in cerca d’un impiegato a tempo pieno a settecentocinquanta euro mensili; l’albergo ha poi precisato che l’annuncio conteneva un errore di battitura e che in realtà offriva 1.750 euro. Fingiamo, tuttavia, che un albergo ricchissimo offra l’equivalente del reddito di cittadinanza a un padre di famiglia rimasto disoccupato, in cambio di otto ore di lavoro al giorno, soprattutto nei festivi; non siamo ipocriti: chiunque preferirebbe ricevere 750 euro al mese per restare a casa piuttosto che per lavorare. Ecco, dunque, l’unico merito che riconosco a tale misura: il lavoratore idoneo a beneficiare di questo reddito può ora permettersi di rifiutare un’offerta di lavoro con retribuzione pari o inferiore al reddito stesso; un marxista direbbe che ora può sottrarsi allo sfruttamento.

D’altra parte, i lavoratori non proveranno alcuna simpatia né per questo percettore del reddito né per la legge che gli consente di guadagnare senza faticare, poiché la leggeranno come un’ingiustizia nei propri confronti; alcuni accuseranno il reddito di sottrarre denaro alla collettività senz’alcun ritorno economico positivo, d’incentivare il lavoro nero e ogni genere di truffa. Personalmente, io credo che il reddito di cittadinanza abbia evidenziato il grande problema, cioè il conflitto apparente tra le istanze dei lavoratori, quelle dei datori di lavoro e quelle dello Stato; ma non arriva a risolverlo. Solo il lavoro garantisce la dignità del cittadino, poiché gli fornisce il necessario a mantenersi in cambio di un contributo materiale o spirituale alla società, come vuole la Costituzione; il reddito di cittadinanza, svincolando il trattamento economico dalla prestazione lavorativa, esce da questo spirito, mentre il dovere dello Stato sarebbe garantire contemporaneamente la retribuzione dignitosa del lavoratore e il profitto dell’azienda.

Come se ne esce? L’abolizione senz’altro del reddito di cittadinanza non farebbe che riproporre la situazione precedente: impieghi a quattrocento, cinquecento euro al mese, in diretta alternativa con la fame; dall’altra parte, poiché l’effetto reale di questo reddito è pari a quello di un salario minimo implicito, sarebbe il caso di adottare direttamente un salario minimo e lasciar perdere il reddito di cittadinanza.

Tuttavia, sorgerebbero alcuni problemi, tutti concatenati e derivanti dal fatto che l’entrata del lavoratore è un’uscita per l’azienda, la quale non è una banca centrale che stampa il denaro e, quindi, può spendere solo in base ai ricavi. Si ipotizzi un salario minimo di 1.200 euro mensili:

  • un’ipotetica azienda con cento dipendenti, ciascuno retribuito mille euro mensili (totale salari: 100.000 euro), si troverebbe a dover aumentare i salari di duecento euro per ciascuno (totale aumenti: 20.000 euro);
  • se nessun aumento dei profitti potesse coprire l’aumento dei salari, l’azienda sarebbe costretta a licenziare venti lavoratori, in modo da rispettare la legge sul minimo salariale senza perderci;
  • di conseguenza, il conteggio nazionale sarebbe tanto più alto quanto più numerose fossero le aziende con salari troppo bassi all’entrata in vigore del minimo: l’aumento di disoccupati causerebbe meno entrate fiscali e più spese per lo Stato, costretto a versare nuovi assegni di disoccupazione;
  • intanto, calerebbero i consumi, con il risultato che le stesse aziende ricaverebbero minor profitto e, dunque, incontrerebbero ulteriori difficoltà a rispettare la norma del salario minimo;
  • a parte, si noti che in alcuni contesti il salario minimo rischierebbe di diventare anche la cifra massima erogata.

Si è detto che il reddito di cittadinanza è come un salario minimo occulto, ma si ricordi che quel reddito si applica ai disoccupati senz’altro reddito, mentre un salario minimo riguarderebbe tutti i lavoratori, o quantomeno le fasce salariali più deboli. Diversi sono i numeri e, quindi, diversa sarebbe l’entità degli effetti.

In ogni caso, sostituire il reddito di cittadinanza con un salario minimo implica l’aver già risolto il problema della disoccupazione, il che chiama nuovamente in causa le spese sostenute dalle aziende per ciascun impiegato: bisognerebbe porre le condizioni perché un’azienda potesse assumere più lavoratori di quelli che attualmente impiega, riducendo il numero di coloro che hanno bisogno del reddito di cittadinanza. Il primo ostacolo all’assunzione di nuovi dipendenti a condizioni eque è la tassazione, la quale porta via alle aziende oltre il quaranta percento dei guadagni: prima di eliminare il reddito di cittadinanza e sostituirlo col minimo salariale, si dovrebbe perciò abbassare notevolmente la tassazione sulle imprese; ma anche quella sulle retribuzioni degli impiegati sarebbe da ridurre, dato che almeno in parte ricade sulle aziende.

Entra dunque in scena una componente del programma di governo, la tassa piatta di salviniana memoria: a quel punto, ogni alibi svanirebbe come neve al sole; il datore di lavoro non potrebbe più lamentarsi delle tasse troppo elevate e potrebbe investire il denaro risparmiato nell’adeguamento ai salari minimi. Allora, lo Stato potrebbe applicare senza rimorsi anche le conseguenze penali del mancato adeguamento, così come potrebbe condannare al carcere gli evasori senza proteste: se non si chiede altro che il quindici percento, si ha anche il diritto di pretendere quei pochi soldi fino all’ultimo centesimo. Alla fine, le entrate dello Stato diminuirebbero per singolo contribuente, ma aumenterebbero per numero di contribuenti che versano effettivamente le tasse – come se il gettito fiscale fosse mai riuscito anche solo a pareggiare la spesa pubblica… Ma siccome il pensiero dominante è quello dei liberali, convinti che lo Stato sia un’azienda, la precisazione è necessaria.

«Ma,» protesterà qualcuno, «la tassa piatta è un regalo ai ricchi! Che fine fa il criterio costituzionale della progressività, se tanto l’impiegato quanto Briatore pagano entrambi il quindici percento?» I lettori staranno già ridendo, ma bisogna ricordare che questo argomento è stato realmente sollevato dai partiti contrari, evidentemente in malafede: non posso credere che esponenti politici di rilievo non conoscano la differenza tra valore assoluto e percentuale (ci arrivo io che sono letterato), perciò debbo convincermi che credano che il popolo sia composto da imbecilli assoluti, ai quali si può far credere qualsiasi cosa. Il quindici percento sarebbe calcolato sul reddito della singola persona o sulle entrate della singola azienda: il quindici percento di Briatore, il quindici percento di un muratore o il mio quindici percento, che da insegnante precario, quando ho un incarico, prendo millecinquecento euro al mese, non sono la stessa cifra. Invece, sia detto per inciso, è esattamente la stessa cifra quella che paghiamo allo Stato io, il muratore e (la governante di) Briatore se andiamo a comprare la stessa marca pasta nello stesso negozio, dato che non è calcolata sui nostri redditi ma sul prezzo della pasta stessa. Chiariamolo una volta per tutte: una tassa piatta non sarebbe incostituzionale perché verrebbe calcolata sui redditi, e quindi sarebbe di per sé progressiva; mentre l’IVA è sempre stata illegittima, così come le accise sulla benzina e qualunque altra imposta che non si calcoli sul reddito.

In conclusione, penso che si possa arrivare a una situazione equa senza troppi scossoni, realizzando uno per volta e in quest’ordine i provvedimenti che seguono:

  • estendere a tutte le categorie d’imprese e lavoratori la tassazione piatta, possibilmente molto bassa;
  • lasciar sedimentare per qualche mese e poi introdurre, magari gradatamente, il salario minimo garantito per le categorie più soggette a sfruttamento;
  • eliminare il reddito di cittadinanza.

Certo, la precondizione per gestire queste fasi sarebbe la garanzia pubblica sui titoli di Stato, vera fonte di finanziamento per qualunque Paese del mondo, eccetto la Corea del Nord. Faccio notare a margine che tagliare il debito pubblico significherebbe sottrarre capitali alle banche, quindi prosciugare i vostri conti correnti; lasciatelo crescere in santa pace; basta che lo Stato abbia in mano le leve di controllo e non dovrà preoccuparsi mai di quella cifra, com’è successo in Giappone quando c’era Abe (debito pubblico: seimila miliardi) e come succede normalmente negli Stati Uniti (debito pubblico: ventimila miliardi).

Per avere di nuovo una garanzia pubblica sui titoli di Stato, come l’avevamo prima del 1981, dovremmo rimettere la Banca d’Italia sotto totale controllo pubblico… e in realtà, ho qualche vago sospetto che, sottobanco, Draghi abbia lavorato in quella direzione… Se ho indovinato, non finirà quest’anno prima che ce ne accorgiamo. Non abbandoniamo le speranze.

Perché Sanremo è Sanremo – 2023

Come ogni anno, sono curioso delle canzoni che partecipano a Sanremo; non di Sanremo, però, perché non ho tempo di guardarlo in diretta e non mi piace il contorno di ospiti, collegamenti con altri palchi di cui non sento la necessità, siparietti con questa o quella co-conduttrice, ventenni anagrafici mentalmente cinquenni che sfasciano le fioriere, la liaison tra Fedez e Rosa Chemical che avrà certamente fatto tanto piacere alla paladina della modernità (altrui) Chiara Ferragni ecc.

Salverei le scene realmente capaci di far ridere, ma mi toccherebbe guardare cinque ore di trasmissione a sera per trovarle, e, come dicevo, non ho tempo. Perciò, ho deciso di recuperare le sole canzoni, con l’ordine della terza serata, ed esprimere la mia povera opinione. Fatemi sapere se siete d’accordo o meno.

1 – Paola & Chiara, Furore | Carina. Il ritornello è effettivamente ballabile e potremmo definirlo la risposta italiana al reggae ton, ma senza il giro di batteria prefabbricato. Direi che rientra fra le canzoni orecchiabili senza speranza del podio, ma passibili di ritorno in radio fino allo sfinimento degli ascoltatori. PROMOSSE

2 – Mara Sattei, Duemilaminuti | «… Poi sei scappato e hai rubato tutta la mia voce.» Eh sì. Non che non ne abbia nel ritornello, ma nella strofa iniziale ha preso fiato in un punto in cui un coro parrocchiale medio andrebbe avanti senza problemi. L’impressione è che si fosse appena svegliata; poi accelera al punto da rendere incomprensibile il testo, più o meno come prendere a occhio la targa di una spider che fila a trecento all’ora sulla tangenziale. Peccato, perché il ritornello sarebbe anche orecchiabile, ma il tutto risulta un filino lagnoso. RIMANDATA A SETTEMBRE

3 – Rosa Chemical, Made in Italy | Ho sentito parte della canzone in diretta; vivace nel ritmo, poco comprensibile nel testo, certo ben poco adatta a un Sanremo normale – ammesso che ne vedremo mai un altro. Non sono sicuro che il messaggio sia solo quel che sembra, ma la patina trasgressiva, a mente fredda, non ha fatto altro che annoiarmi: nel mondo dello spettacolo la trasgressione è divenuta una regola; pertanto, se trasgredisci in quel mondo, non stai facendo altro che uniformarti a tutti gli altri. Oggi, dopo tutto quello che abbiamo visto, la stranezza sarebbe un cantante che veste un inappuntabile smoking, rimane imbalsamato al centro del palco e canta una struggente romanza con la voce di Claudio Villa. BOCCIATO

4 – Gianluca Grignani, Quando ti manca il fiato | Per quanto Grignani sia, per aver tatto, un po’ perso, i sentimenti alla base della sua canzone arrivano tutti. Ho anzi notato che il Festival ha una lunga tradizione di brani dedicati alla mamma, da Tutte le mamme portata sul palco da Consolini e Latilla nel ’54 a Portami a ballare del ’92, fino a quella di Gigi D’Alessio, di cui non sono sicuro di ricordare il titolo e certamente ho scordato l’anno; ma non credo ci siano state molte canzoni dedicate al papà, perciò direi che il cantautore di Destinazione paradiso (portata in duetto con ARISA nella quarta serata… in modo non particolarmente efficace) ha almeno il merito d’aver colmato una lacuna. RIMANDATO A SETTEMBRE

5 – Levante, Vivo | L’impressione, soprattutto durante il ritornello, è quella di un brano della Rappresentante di Lista (magari l’ha effettivamente composto… qualcuno lo sa?), spensierato solo nel ritmo. Tutto sommato, non dice nulla di nuovo; peccato per le strofe poco cantate, come va purtroppo di moda oggi, ma nel ritornello si sente almeno la potenza della voce. RIMANDATA A SETTEMBRE

6 – Tananai, Tango | Sciur Tananai, con tutto il rispetto, è un po’ una lagna; e non tanto perché canti come se fosse sul punto di piangere, ma perché è un po’ già sentita come tante altre canzoni e trascina ancora una volta un sentimento contrastato. Noto una totale abolizione dei modi verbali diversi dall’indicativo, che mi pare preoccupante; noto anche una vaghissima ripresa testuale da Se bruciasse la città, ma senza la conclusione propositiva di Ranieri. RIMANDATO A SETTEMBRE

7 – Lazza, Cenere | Secondo a Sanremo, primo su Spotify, Lazza porta sul palco una storia tormentata con un finale incoraggiante, un po’ gridata e un po’ in linea con un genere che ha pochi anni ma ha già stufato, come purtroppo fece ai tempi lo stile Liberty. Va be’, non ho ben capito gli entusiasmi, ma non è male. RIMANDATO A SETTEMBRE

8 – LDA, Se poi domani | Il figlio di Gigi D’Alessio mescola i ritmi d’oggi con la canzone d’amore della generazione scorsa, con risultati non particolarmente interessanti: tutto sommato, abbiamo già sentito tutto, compresi gli a-capo per andare a tempo e gli accenti impropri, di cui ormai si abusa largamente. Né infamia né lode. RIMANDATO A SETTEMBRE

9 – Madame, Il bene nel male | Se sorvolo sulla ripresa ossessiva delle stesse note della Rappresentante di Lista in Ciao, ciao, quando cantava che «la fine del mondo è una giostra perfetta», il difetto principale di questo brano è che per una metà buona Madame sembra una segreteria telefonica: monotona come la voce registrata che ti segnala i messaggi non ascoltati, compreso il fatto che ogni due per tre cade la linea. Ah, stava dicendo: «tanto, tanto, tanto»? BOCCIATA

10 – Ultimo, Alba | È una canzone di Ultimo: inizio al pianoforte, quasi sussurrata, l’orchestra a un passo dal silenzio, la voce del giovanotto che prende corpo un po’ per volta, fino a esplodere in un grido a tanto così dalla disperazione, la testa rovesciata all’indietro perché non devono esserci ostruzioni di sorta nell’apparato fonatorio, onde spiegare al massimo la potenza vocale. Un po’ standard, tutto sommato, ma siccome canta bene, gli si concede uno sconto. RIMANDATO A SETTEMBRE

11 – Elodie, Due | C’è qualche eco, in giro per il testo, sottotraccia, di Se telefonando? o ci ho pensato solo io? A parte questo, devo dire che questa cantante ha una gran voce e sa esprimere molto bene il senso delle canzoni, pur non rientrando fra i miei artisti preferiti. In questo caso, tanto per cambiare, c’è una storia d’amore finita subito, finita male, ridotta alla deprimente alternativa tra «lacrime mie o lacrime tue». Più aggressiva della canzone d’amore infelice standard, ma è la sola particolarità. PROMOSSA

12 – Mr. Rain, Supereroi | Che carino il coro dei bambini! … Ok, passiamo alla canzone. Quando è iniziato il ritornello, non ho potuto fare a meno di pensare, forse perché le prime tre note erano identiche, a: «Camminerò, camminerò / sulla tua strada, Signor…», ma il messaggio è bello e qualche eco o citazione qua e là non disturba poi tanto. Di tutte le canzoni di quest’anno, mi pare la meno depressa, la meno seriosa, quella con minori necessità di fare i conti col passato. PROMOSSO

13 – Giorgia, Parole dette male | Ma cantate bene, direi. Il brano non mi pare uno dei migliori suoi, dato il testo più o meno nella media sanremese e una musica bella ma non particolarmente originale; la voce salva molto, quantunque non tutto: è come se si trattenesse un po’. Certo, quando una cantante ha esordito col botto come Giorgia, che vinse il Festival nel 1995 con Come saprei e non arrivò prima nel 2001 (cantava Di sole e d’azzurro) solo perché c’era Elisa con Luce, è difficilissimo mantenersi allo stesso livello ogni volta, od ogni volta alzare l’asticella; mi spiace, anzi, che sia arrivata solo sesta. PROMOSSA

14 – Colla Zio, Non mi va | Era da un po’ che mancava a Sanremo una boy-band scatenata e capace di tenere il palco così. Il pezzo è assolutamente orecchiabile, tanto che mi aspetto di risentirlo in radio qualche volta; suppongo che tratti della gelosia in una relazione ben poco stabile, almeno da parte di lei. Forse, se fosse vissuto oggi, Catullo avrebbe collaborato al testo. Sta di fatto, che la canzone ha vinto il Premio Jannacci, quello assegnato al brano che più si avvicina allo stile del grande Enzo; chiudendo un occhio, potrebbe anche darsi… PROMOSSI

15 – Marco Mengoni, Due vite | Il vincitore del Festival ha effettivamente sfoderato tutte le sue armi vocali e sentimentali; sembra una canzone d’amore non particolarmente felice, ma mi riferiscono dalla regia che Mengoni parla a sé stesso e tende a sfaldarsi nelle Due vite del titolo. Non sta male nemmeno la strofa gridata che precede l’ultimo ritornello, perché il modo si accorda col contenuto. Non riesco a decidere se sia proprio da primo posto, ma non trovo nemmeno vere motivazioni contrarie. PROMOSSO

16 – Colapesce Dimartino, Splash | Che dire… irriverenti e filosofici anche questa volta: dalla meravigliosa poesia dei primi versi, degna della più canonica tradizione, ci si lancia in un ritornello inconfondibilmente anni Settanta, in cui tutto si ribalta: «Preferisco il rumore delle metro affollate a quello del mare», come dire che, invece del partito del Ragazzo della Via Gluck, votano quello di Gaber negli stessi anni; il topo di città non si converte alla campagna perché, in fondo, come la Musica leggerissima, anche il frastuono dei «cantieri infiniti» è un anestetico. Il risultato non è per nulla consolante, ma la canzone mi è piaciuta. PROMOSSI

17 – Coma_Cose, L’addio | Non c’è male, sebbene entrambe le voci da sole non funzionino bene come quando sono insieme; ma forse è proprio questa la morale del loro brano autobiografico, rapporto di coppia e di lavoro che si sfalda e cerca di ricucirsi, con la sola certezza che «l’addio non è una possibilità». Il tutto è abbastanza tenero, anche a livello musicale, per quanto non ci troviamo di fronte al capolavoro che non si dimentica. PROMOSSI

18 – Leo Gassman, Terzo cuore | Sorvoliamo sulla canottiera anni Trenta e passiamo al brano: è una canzone d’amore senza infamia né lode, con una musica coinvolgente ed energica; nel ritornello, Gassman dimostra di avere un’ottima voce e, in generale, di aver ereditato o appreso in famiglia la presenza scenica. Forse, messe queste doti al servizio di un testo un po’ insolito, potrebbe sfondare sul serio. Carina la metafora del terzo cuore, ma ci si può lavorare ancora un po’. PROMOSSO

19 – I Cugini di Campagna, Lettera 22 | Trasudanti anni Ottanta da tutti i pori, da tutti i lustrini, da tutte le zeppe e da tutti gli strumenti, decorati a fiori d’ogni colore, i Cugini di Campagna confezionano un pezzo gradevole, con strofe che dal punto di vista poetico mi sono piaciute molto; il ritornello tende a ripetersi, si prende il suo tempo, ma in sostanza vuol essere una supplica accorata, quindi si può apprezzare. Non pensavo potessero farcela, e infatti non ce l’hanno fatta, ma davvero niente male. PROMOSSI

20 – Olly, Polvere | Non è stagione per i tormentoni estivi, ma a parte questo, temo che la canzone sia un insieme di componenti già più che sperimentate, dal falsetto alla rincorsa prima del ritornello. Tutto sommato, niente di memorabile, ma la voce c’è. RIMADATO A SETTEMBRE

21 – Anna Oxa, Sali | Il messaggio mi pare buono: per quello che sono riuscito a capire tra gli ultrasuoni e gl’infrasuoni, il brano esorta a liberarsi dai mali del nostro tempo e salire a una dimensione più alta e pura; bene, se la Oxa non avesse voluto strafare: la canzone sembra una parodia dei suoi stessi stilemi, dato che li cuce tutti insieme e li porta all’estremo; non arrivo alla definizione data da mio padre («un rito voodoo»), ma un po’ di misura e di comprensibilità ci vuole. RIMANDATA A SETTEMBRE

22 – Articolo 31, Un bel viaggio | Non pensavo, ma mi è piaciuta: è un rap con tasso melodico anomalo, J-Ax che finalmente canta e un testo autobiografico interessante, con qualche spunto niente male come il «manuale per trasformare gli amici in rivali». Direi che merita, anche se non è da podio. PROMOSSI

23 – Ariete, Mare di guai | Non male, direi, con qualche cosa nell’inizio al pianoforte e nel crescendo del ritornello che mi ha ricordato epoche passate, forse gli anni Ottanta; un po’ parlata nelle strofe, ma non sgradevole; alla fine, il collage di frasi acquista un qualche senso. PROMOSSA

24 – Sethu, Cause perse | … come la partecipazione a Sanremo, direi. La musica è molto energica, la coreografia anche; il testo, mi par di capire, vuole esprimere un disagio: peccato che nel ritornello non si capisca granché di quel che dice, complice la moda di spezzare le parole in base al ritmo, che un tempo si sarebbe detta incapacità di scrivere. Sethu prende fiato solo quando l’ha finito, il che non aiuta, ma può mascherare la carenza tecnica col fatto che salta per tutto il palco; velo pietoso sull’autotune. BOCCIATO

25 – Shari, Egoista | C’è una punta di blues nel polpettone d’amore infelice, ed è un peccato che Shari esprima tutta la sua potenza vocale solo alla fine del brano; potenza che però ha poco controllo, dato che si sente troppo bene quando deve riprendere aria: certi respiri brevi da asma non giocano a favore del cantante. BOCCIATA

26 – gIANMARIA, Mostro | L’introduzione musicale un po’ mistica rimane immediatamente soffocata da questo giovanotto che ha un disperato bisogno di giustificarsi, e infatti per gran parte del ritornello urla, pur risultando nel complesso intonato. Non so: ci può essere del potenziale, ma bisognerebbe lavorarci e, magari, piangersi addosso un po’ meno. RIMANDATO A SETTEMBRE

27 – Modà, Lasciami | Non so a voi, ma a me i Modà non sono mai dispiaciuti, e questa canzone avrebbe meritato di piazzarsi più in alto; è vero che forse la gran parte della sua forza non risiede nel testo ma nel sottotesto, dato che sembra una canzone d’amore come tante e invece parla di depressione; ma del resto, anche Torna a Surriento era rivolta a un deputato perché tornasse a visitare il suo collegio… A livello melodico mi è piaciuta, soprattutto quel sottofondo di fiati sul secondo ritornello che ricorda una fanfara secentesca o qualcosa del genere. PROMOSSI

28 – Will, Stupido | Sebbene la faccia da ragazzino e la voce un po’ acuta facciano tenerezza, non riesco a passare sopra al fatto che gli serva l’autotune per cantare il ritornello, con effetti metallici inascoltabili; quanto al brano, Will ha purtroppo ragione quando si accusa di diventare banale, il che significa che Stupido non è, ma forse non ha avuto coraggio. RIMANDATO A SETTEMBRE

Buon Natale/2022

Ciao a tutti!

con colpevole ritardo, pubblico il biglietto di Natale di quest’anno, confortato dal fatto che, dopo tutto, siamo a Natale fino all’Epifania.

Auguri!

Gianluca Berno

Letterina militare

Satira di Gianluca Berno, 05/12/2022

«Mandami, mandami, Babbo NATOle,

tutti i fucili prodotti nell’Ovest,

tutti i siluri, le mine e pistole.

Prima ch’alcuno si chieda: cui prodest?

mandami, mandami mezzi e soldati

sì che dal giogo noi siam liberati.»

.

Babbo NATOle mandava ogni cosa,

tifo da stadio ostentando feroce;

poi, quand’ognuno si vide corrosa

la santabarbara, chiese a gran voce:

«Quanto mi chiedi, ragazzo! mi scuote

veder le scorte che ormai sono vuote.

.

Dimmi, però, che facesti dell’arme,

quelle mandate ai depositi tuoi».

Solo chi è pronto continui col carme,

poiché il ragazzo rispose: «Tu vuoi

ch’io rinnovelli indicibile duolo;

tutti i depositi son rasi al suolo!».

.

Metti che i missili, bene mirati,

spazzino via solamente i depositi…

Lascia ch’io sogni nei versi alati

compari inauditi con piani appositi;

solo perché tu dubiti: può darsi

che due portino tutti a disarmarsi?

.

«Non si dà pace col suono di bombe

né col gridar: “Botte! botte!” da un canto»;

queste parole ad ornarci le tombe

vorremo noi, che aspettammo per tanto

la fine d’una collettiva insania,

mentre la Storia urlava: «Dasvidaniya!».

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