di Gianluca Berno

Un giorno di duemilacinquecento anni fa, in Grecia, il filosofo Eraclito faceva due passi in riva a un fiume; e mentre guardava l’acqua scorrere sotto il ponte, notò che nello stesso fiume non passava mai la stessa acqua: al contempo era e non era lo stesso fiume. Ma se cambiava continuamente, perché agli occhi della gente rimaneva sempre quel fiume, con quel nome? Che cosa permette alle cose, che pure divengono incessantemente, di rimanere sé stesse?

Quando si attribuisce a Eraclito il noto motto panta rhei, “tutto scorre”, si dà del suo pensiero un’epitome impropria: la constatazione che le cose cambiano e finiscono non è il risultato ma l’inizio di tutte le riflessioni – e non solo d’Eraclito. Il divenire è un’ovvietà pura e semplice, sulla quale il nostro patito d’idrografia si formò una visione del mondo. E qual è questa visione? Eraclito scoprì uno dei princìpi regolatori della realtà, quello di non-contraddizione o identità: una cosa è sé e non è altro da sé. Banale? Sì, ma non nelle implicazioni: come il nome del fiume, qualcosa permane sotto tutto questo divenire implacabile; qualcosa che permette al Foscolo di riconoscersi allo specchio anche quando scrive con enfasi: “Non son chi fui”. Esistono limiti che di norma non vengono superati, e in virtù dei quali io resto io e tu resti tu. Ogni cosa deve la propria riconoscibilità a ciò che il filosofo, nel suo linguaggio poetico, chiamava “la madre di tutte le cose”: pòlemos, la guerra. Non la guerra condotta da noi esseri umani, che lascia sul campo popolazioni intere, ma una silenziosa ostilità fra le cose, che vieta a ciascuna di occupare lo spazio dell’altra e garantisce l’equilibrio fragile del reale. Eraclito è il filosofo del divenire, ma più ancora è il filosofo dei confini: alcuni sono ampie e labili fasce, che separano solo in parte, per gradi, gli estremi di una scala; altri sono più netti e pongono elementi diversi in una condizione di pura e semplice indifferenza reciproca, così che la penna è sul tavolo senza che i due si fondano; altri ancora sono limiti invalicabili, come quello tra la luce e il buio, la salute e la malattia, il bene e il male. In questo caso, non c’è spiraglio ad alcuna comunicazione: i due opposti si alternano senza vedersi mai, eppure nessuno dei due esisterebbe da solo. È il confine a permettere la molteplicità del mondo, a creare le differenze – come il Darwin aveva compreso osservando le ventisei specie di fringuelli delle Isole Galapagos, tutte originate da una sola specie continentale, che si era dispersa sulle isole e adattata a diverse nicchie ecologiche. L’esistenza stessa dei singoli elementi dipende dai confini tra loro.

Ponendo la questione in termini politici, slogan come “uniamo i popoli”, “niente frontiere” e così via, rischiano di costituire una minaccia al vero dialogo fra le nazioni, quello che nasce dalla curiosità per le differenze: qual è lo scopo di abolire i confini, se non un’unica, noiosissima poltiglia globale, troppo uniforme per condivider idee, pensieri, visioni del mondo? Ma siamo fortunati, perché l’omologazione è resa impossibile dalla vastità stessa del mondo: possiamo connetterci quanto vogliamo, viaggiare, mescolarci, ma alla fine siamo troppi e troppo sparpagliati perché nasca una sola cultura globale. Eraclito aveva trovato un principio davvero universale, un elemento costitutivo del reale, del quale semplicemente non si può fare a meno. In questo si mostra vera l’immagine kantiana della colomba, che vorrebbe eliminare l’attrito con l’aria per volare libera dove vuole, ma che senz’aria non potrebbe vivere. Eraclito, insomma, oppone la necessità universale a quella che noi crediamo libertà, e ci interroga ancora oggi mettendoci in crisi: posta la necessità, non è che abbiamo sbagliato la definizione di “libertà”?